L’introduzione del VAR non ha spento le polemiche sulle decisioni arbitrali, ma ne ha solo spostato lo spettro. L’interpretazione dell’arbitro resta comunque un fattore decisivo, e semmai ci si interroga sulle occasioni in cui l’assistente VAR possa (e debba) intervenire. Il fuorigioco, un po’ come la goal-line technology, era un tempo il centro pulsante di ogni moviolone, mentre oggi come tema di dibattito si è decisamente raffreddato: l’implementazione della tecnologia consente infatti di poter stabilire in modo praticamente oggettivo la regolarità delle azioni.
Certo, restano dei problemi: individuare il frame esatto in cui parte il pallone, e poi il paradosso per cui la precisione millimetrica delle linee tracciate genera fuorigioco veri per la “scienza”, molto meno per gli spettatori e i protagonisti in campo, per cui ci si interroga se davvero un’unghia di differenza conceda all’attaccante un vantaggio meritevole di sanzione, e quindi su eventuali variazioni della norma che si potrebbero introdurre per limitare questo aspetto.
Il problema più impattante in assoluto, però, è quello relativo al tempo: come fa notare l’ex tecnico dell’Arsenal Arsene Wenger, oggi Responsabile dello sviluppo mondiale del calcio per la FIFA, il tempo medio di attesa perché arrivi il verdetto della VAR room su una situazione di fuorigioco dubbio è mediamente di 70 secondi. Ci sono ovviamente casi più complessi, dove l’attese di protrae anche oltre i due minuti: una situazione nuova, cui da qualche anno tifosi e calciatori si sono abituati, esultando solo a metà, almeno fino alla convalida definitiva.