Correva l’anno 1981.
Nel mese di Ottobre, l’Inghilterra si apprestava a fare i conti con uno degli inverni più freddi di sempre (il “Big Snow of 1982” sarebbe arrivato di lì a qualche settimana) ma, almeno nella musica, le temperature furono diametralmente opposte a quelle atmosferiche.
I Queen pubblicarono con David Bowie “Under Pressure”, segnando un duetto tra quelli più memorabili del panorama pop-rock e, dall’altra parte di Londra, Sting, Andy Summers e Stewart Copeland davano alle stampe “Ghost in the Machine”, l’album della “riconfigurazione musicale” per il trio inglese.
Zenyatta Mondatta dell’anno precedente li rese delle star, raggiungendo il 5° posto in classifica (la loro prima Top 10) e due dei suoi singoli – “De Do Do Do, De Da Da Da” e “Don’t Stand So Close to Me” entrarono in Top 10 per la prima volta.
Quando iniziarono a lavorare su “Ghost in the Machine” nel Gennaio di quell’anno, i Police erano pronti a portare la loro musica in una nuova dimensione.
Per prima cosa alla produzione c’è Hugh Padgham (il creatore del “gated reverb” di “In the Air Tonight” di Phil Collins e che, dopo l’esperienza Police, avrebbe collaborato, tra gli altri, con Bee Gees, Tears For Fears e Paul McCartney), inoltre scelsero gli studi Air di Montserrat.
Quest’album ha anche la particolarità di essere il primo nel loro catalogo ad avere un titolo in inglese.
“Ghost in the Machine” è pieno zeppo di molti primati e sottili cambiamenti, in particolare per l’uso di tastiere e sovraincisioni, per non parlare poi della copertina dell’album che non presenta la band per la prima volta.
Basato su “The Ghost in the Machine” di Arthur Koestler (un libro di filosofia del 1967 sulla relazione mente-corpo), il disco riflette di parecchio le tematiche psicologiche e filosofiche affrontate nel tomo che Sting aveva assorbito più che letto.
Basta ascoltare “Spirits in the Material World“, una sintesi musicale di tre minuti del lavoro di Koestler, per capire la direzione delle liriche.
Ma la spiritualità e la filosofia non sono i soli argomenti trattati in quest’album: c’è l’amore con “Every Little Thing She Does Is Magic” e brani politici come “Invisible Sun“.
Musicalmente i Police qui risultano cresciuti parecchio, inserendo sintetizzatori, corni e pianoforte negli arrangiamenti, dando più definizione e un senso di ampiezza maggiore rispetto ai dischi precedenti.
Alcune settimane dopo la sua uscita il 2 ottobre 1981, il disco salì in classifica e si fermò al numero 2, vincendo la palma d’oro come disco più “oscuro” della band nonché l’ultimo in cui i tre andarono d’accordo l’uno con l’altro, producendo l’album più intelligente e complicato della loro breve carriera.
Ascoltare “Ghost in the Machine” nella sua interezza per la prima volta, dopo molti anni, è stato un esercizio gioioso che consiglio a tutti, sperando di aver stuzzicato la vostra curiosità.