La vita interrotta di una bambina della Shoah. Errori e orrori commessi dal genere umano.
‘È questione di pochi anni, e poi non ci saranno più testimoni in vita della Shoah’.
Così comincia l’introduzione al libro che racconta uno degli spaccati di storia contemporanea più tremendo che il genere umano abbia dovuto subire, ma che ha anche visto proprio l’uomo in prima linea contro i suoi simili.
E quale mezzo più semplice da usare come tramite, se non la voce di chi l’ha vissuto purtroppo in prima persona.
Qui si narra la storia di chi ha subito la Shoah.
La storia di una bambina, Liliana Segre, che nasce a Milano nel 1930 in una famiglia ebrea: questa la sua unica colpa, condivisa con tanti altri bambini come lei.
Il suo viaggio del dolore comincia all’età di soli tredici anni, quando viene arrestata con il padre e deportata su quel convoglio che arriva ad Auschwitz-Birkenau, passando prima per il carcere di San Vittore dopo una tentata fuga non andata a buon fine.
Ma non voglio dilungarmi troppo sulla disquisizione dell’Olocausto di cui si parla già tanto.
Crescere troppo in fretta. L’infanzia rubata e il distacco.
Voglio parlare di quella bambina e di ciò che ha passato, lei come tanti altri, lei che è sopravvissuta riuscendo a lasciare questa testimonianza così viva ancora oggi.
Mentre si leggono le sue parole si ha come la sensazione di udire il suono di una voce così dolce nonostante stesse raccontando gli orrori più grandi che un essere umano possa vivere;
si percepisce delicatezza e dolore assieme per qualcosa che non va dimenticato e che non si potrà mai cancellare dalla mente di chi l’ha vissuto e da chi è venuto dopo nella sua vita.
Perché un evento del genere non può non lasciare un segno. Un segno che è invisibile, più di quello che possono sembrare cinque numeri ormai sbiaditi marchiati sulla pelle. È un solco dentro l’anima, un marchio sul cuore.
Liliana aveva già perso sua madre quando aveva pochi mesi, ed è cresciuta circondata dall’amore del padre e dei nonni paterni: il padre è stato così forte da ricoprire anche il ruolo di figura materna, talmente tanto da provare a non fargli avvertire la pesantezza dei giorni che li aspettavano.
Liliana è come se avesse sceso tanti gradini, che l’hanno poi portata nelle profondità del campo di sterminio. Ha prima subito l’espulsione da scuola, senza più poter studiare o giocare con le bambine della sua età come giusto che sia; ancor più in tempi già difficili come quelli della Seconda guerra mondiale.
Liliana si lega ancora di più al padre perché subisce la perdita dei nonni, costretti ad essere abbandonati poiché privi della giusta dose di salute per affrontare un viaggio del genere; ma dopo perde anche quello, la sua ultima certezza, perché al campo di concentramento ti separano in base al sesso: poi ti separano da altri ancora e non si sa il perché. Come una selezione naturale, ma di una mente malata.
Così finisce l’infanzia di Liliana, troppo presto, ma comincia la sua speranza.
Lottare per sopravVIVERE. Ripartire per vivere.
La speranza di uscire viva da quell’incubo per poter rivedere la sua famiglia, da cui ha dovuto separarsi un giorno ben preciso, e alla quale ha sempre sperato di riunirsi, presto o tardi. Non ha mai saputo se avrebbe rivisto i suoi cari, ma le sue speranze pur affievolendosi, non si sono mai spente, neanche dopo la liberazione e fino al giorno in cui ha conosciuto la verità.
Liliana è stata marchiata, separata da persone amiche che ha conosciuto nel campo e nelle quali aveva trovato una parvenza di rifugio. Non ha potuto mangiare e lavarsi per tanto tempo, ha dovuto rasare i suoi capelli e subire angherie persino da altre prigioniere come lei soltanto per guadagnarsi qualche briciola. E nonostante tutto ciò io trovo che sia rimasta quella dolce bambina cresciuta nell’amore di un padre diventato vedovo troppo presto e che viveva in adorazione per la sua unica figlia.
Questa donna ha lottato per sopravvivere. Una lotta spasmodica terminata con il ritorno nella sua Milano, in cui ritrova i suoi zii, una parte della sua famiglia, ma forse non quella che lei riteneva la più fondamentale, quella che l’aveva cresciuta: i suoi nonni paterni e suo padre non ci sono più. Non c’è nemmeno più la sua casa, troppe cose sono cambiate; e al termine di una corsa contro il tempo per salvare la propria pelle si sa, che prima o poi ci si lascia andare. L’euforia di avercela fatta lascia purtroppo lo spazio ai pensieri, ai ricordi, ai fantasmi dei mesi passati: l’angoscia e la depressione prendono il sopravvento su Liliana, che nonostante tutto però è riuscita a ricostruire la sua vita, creando una famiglia tutta sua con un compagno di vita davvero speciale, che l’ha sempre supportata, gestendo anche le assenze che ci sono state da parte della donna, a parer mio inevitabili.
Liliana è riuscita a sopravvivere e a guarire anche da questo, una malattia che ha colpito tante vittime della Shoah dopo la liberazione e che ha visto tanti morire per suicidio: il peso che ci si porta dietro è davvero difficile da trasportare. Ma lei trova anche le forze e le energie per dare voce al suo vissuto e a quello di coloro che non sono mai riusciti a raccontarlo, e io la ammiro tantissimo per questo.
Spesso mi è capitato di chiedere a mia nonna di raccontarmi la sua infanzia durante la guerra: persino per i non ebrei è stato un periodo difficile, fatto di fughe e di rischi corsi per proteggerli e nonostante questo alcuni animi sono rimasti intatti per sempre. Spesso le ho chiesto come ha fatto a non diventare una persona triste, chiusa o ‘cattiva’, arrabbiata con la vita; lei mi ha sempre risposto che doveva andare avanti per creare la nostra famiglia e che non avrebbe risolto nulla diventando un’altra.
Ecco, è proprio questo ciò che ammiro delle persone come Liliana o come mia nonna: essere vissuti ai tempi della guerra e non aver cambiato il proprio essere. I segni restano e sicuramente un’evoluzione c’è stata, ma questa si è presentata sotto altre vesti: una forza d’animo sovrumana e una sensibilità invidiabile.
Questi racconti, la storia di questa esperienza, non devono mai rimanere nell’indifferenza, non devono mai essere archiviati. Purtroppo, siamo ancora tutti testimoni di queste atrocità, perché ci sono ancora e conosciamo il passato; rammentarli e tenerne vivo il ricordo è un atto dovuto che dobbiamo compiere in onore di questi eroi.
Voto: 5/5